Gli Editoriali di Memories #2 Pensieri lenti e veloci: una giustificazione matematica al bisogno di un archivio
Questo articolo parla di un testo che solitamente è in cima alle classifiche dei “libri che ti cambiano la vita”. Per cui riflettete bene prima di proseguire: la vostra vita potrebbe uscirne mutata, e non è detto che cambi in meglio.
Il punto, però, almeno per noi, è ricordarla bene.
Il libro in questione è Pensieri lenti e veloci, di Daniel Kahneman, autore insignito del premio Nobel per i suoi studi sull’economia comportamentale. Lo abbiamo menzionato anche nel corso del primo editoriale, e ci piaceva l’idea di approfondire il suo lavoro.
Sistema 1 e Sistema 2
L’idea di Kahneman è questa: la mente umana funziona su due livelli di pensiero. Uno rapido e intuitivo (il pensiero veloce, sistema 1); e uno più riflessivo e analitico (il pensiero lento, sistema 2).
- Il sistema 1 rappresenta il nostro modo di pensare automatico, istintivo, che consente di prendere decisioni rapide senza riflettere troppo a lungo.
- Il sistema 2 rappresenta invece il nostro modo di pensare più razionale, logico e consapevole. È il nostro sistema di pensiero analitico, che richiede uno sforzo cognitivo maggiore.
Questi due modi di pensare possono influenzare le nostre decisioni, provocando errori di giudizio e distorsioni cognitive (i famosi bias), portandoci a fraintendere il nostro rapporto con la realtà.
Il bias su cui ci concentreremo è quello che Kahnemann definisce la “tirannia del sé mnemonico”. Noi, per praticità e velocità, lo chiameremo “bias temporale” o “bias da contemporaneità”. Ovvero quella tendenza che porta a dare un peso maggiore agli eventi recenti, rispetto a quelli passati.
La colonizzazione del dolore
Gusti e decisioni sono forgiati dai ricordi, e i ricordi sono quasi sempre sbagliati.
Secondo Kahneman, il bias temporale è provocato da un conflitto tra esperienza e memoria.
Per dimostrarlo, l’autore ricorre a un metodo tanto sadico quanto fantasioso: un esperimento di misurazione del dolore condotto durante delle colonscopie effettuate a pazienti ignari (se la trovate una cosa inappropriata o volgare, ricordate che questa storia finisce con l’assegnazione del Nobel).
Utilizzando uno strumento ironicamente chiamato edonimetro, Kahnemann ha misurato momento per momento il dolore provato dai pazienti nel corso delle procedure e lo ha rappresentato nei seguenti grafici.
Conclusioni:
- La prima procedura è durata meno di dieci minuti e si è conclusa con un picco di dolore.
- La seconda procedura è durata più a lungo, ha procurato un dolore prolungato nel tempo, ma si è conclusa con un momento di dolore più tollerabile.
La “quantità di dolore” erogato nel corso della seconda procedura è stata superiore, eppure il paziente A ha espresso una valutazione di “dolore esperito” maggiore rispetto a quella del paziente B.
I motivi sono da attribuirsi a due aspetti:
- Regola del «picco-fine»: la valutazione globale di un’esperienza è sempre influenzata dal suo momento finale e dal suo momento peggiore.
- «Disattenzione per la durata»: la durata di un’esperienza influisce poco sulla sua valutazione totale.
In sostanza, c’è stata una differenza evidente tra il dolore misurato momento per momento e quello ricordato. Perché? Perché tramite il ricordo rivalutiamo le esperienze della realtà. E lo facciamo così: dando maggiore peso ai picchi e a ciò che succede alla fine.
Confondere l’esperienza con il ricordo che se ne ha è un’inesorabile illusione cognitiva (…). Il sé esperienziale non ha voce. Il sé mnemonico a volte si sbaglia, ma è quello che segna i punti, gestisce quello che apprendiamo dalla vita e prende le decisioni. (…) Questa è la tirannia del sé mnemonico.
L’integralismo mancato
Ma perché la nostra mente ci inganna in questo modo?
Secondo Kahneman perché non è programmata per calcolare integrali. Che c’entra? C’entra, anche se abbiamo avuto qualche difficoltà a capirlo.
Da quel che abbiamo capito, per misurare l’area soggiacente a una curva servirebbe sommare l’area di tutti i rettangoli che la compongono, come nella figura sottostante Ma per arrivare a un risultato vicino all’esattezza servirebbero dei rettangoli talmente piccoli da essere praticamente invisibili.
Ora, se proviamo a identificare la realtà come la curva blu e i rettangoli azzurri come dei “blocchi di tempo da ricordare”, potremmo dire che la nostra memoria fallisce nel costruire dei blocchi sufficientemente piccoli. Non ricordiamo i singoli istanti, ma ricordiamo dei blocchi più grandi e imprecisi.
Quindi
Perché è così difficile far capire a qualcuno che ha bisogno di un archivio?
Perché all’interno di un archivio il tempo viene elaborato in una maniera molto diversa: l’archivio è in grado di “integrare” i propri contenuti all’interno di una ripartizione temporale dove non sono i picchi a determinare la rilevanza, ma la rilevanza è data dalla temporalità in sé.
La memoria umana, nella sua manifestazione più istintiva, non funziona così. Ecco perché occorre utilizzare e sviluppare una memoria più razionale e analitica per percepire il bisogno di un archivio. Ma una volta che ci si riesce, si potrà vedere la storia più chiaramente, senza conclusioni che attirano l’attenzione e addobbano la memoria. Ricordando quando il dolore ha fatto davvero male, quando siamo stati bravi o solo fortunati, e se il dottore ci ha realmente fregati per vincere il Nobel.
Stefano Trinchero
Chief Data Scientist di Promemoria Group
Credits
L’immagine di copertina è firmata da Tony Cenicola/The New York Times.